La zuppa del demonio

Regia Davide Ferrario; interpreti Walter Leonardi, Gianni Bissaca (voci off); sceneggiatura Davide Ferrario, Giorgio Mastrorocco; montaggio Cristina Sardo; musiche Fabio Barovero; suono Paolo Armao, Vito Martinelli; produzione Rossofuoco e Rai Cinema; distribuzione Microcinema. ITALIA 2014, 80′, DOCUMENTARIO

Il film ricostruisce – tramite un racconto per immagini commentato da due voci narranti e accompagnato da citazioni di uomini di cultura come Marinetti, Gadda, Primo Levi, Pier Paolo Pasolini, Ermanno Olmi, Dino Risi e Majakowskij – quello che il regista ha definito il secolo breve del progresso e dell’industrializzazione dell’Italia, ovvero l’arco di tempo compreso tra i primi anni del Novecento e la prima metà degli anni Settanta – almeno fino alla crisi petrolifera del 1973, quella delle prime “domeniche a piedi”. Tra i diversi spaccati di storia, le grandi opere degli anni dieci, la corsa all’elettrificazione per lo sviluppo della grande industria, Mussolini che inaugura lo stabilimento Fiat di Mirafiori, la produzione bellica, la ricostruzione nel dopoguerra e lo sviluppo di nuove industrie negli anni cinquanta, i modelli piemontesi FIAT e Olivetti, la ricerca di nuove fonti di energia in Italia e all’estero degli anni sessanta, l’operazione “macchine per i pesci” nel golfo di Varazze, le ruspe che tagliano gli ulivi per far posto al tubificio dell’ILVA di Taranto, fino al pionierismo nel campo dell’informatica e del nucleare, con l’accensione primo reattore nucleare italiano a Latina.

La particolarità di questo documentario è che le immagini sono materiale dell’Archivio del Cinema Impresa del Centro Sperimentale di Cinematografia di Ivrea – struttura nata per la conservazione e il restauro di oltre 60.000 bobine video – dove sono raccolti cento anni di documentari industriali di tutte le più importanti aziende italiane. Tra i filmati utilizzati alcuni sono d’autore, da Dino Risi a Ermanno Olmi, da Alessandro Blasetti a Mario Camerini. Quanto alla realizzazione, il regista combina un montaggio veloce in stile videoclip ad uno che somiglia invece a introvabili filmati Rai. Le immagini sono decontestualizzate senza però essere snaturate: “abbiamo fatto parlare i film con le loro voci e le loro immagini –spiega Davide Ferrario – riservando al montaggio il compito di esprimere il nostro punto di vista di narratori. L’idea è nata da una serie di conversazioni tra me e Sergio Toffetti, direttore dell’Archivio”.

L’idea di una “zuppa del demonio” deriva da una frase coniata da Dino Buzzati nel commentare il documentario industriale Il pianeta acciaio (Emilio Marsili,1962) per descrivere la produzione dell’acciaio negli altiforni di Taranto. Ma chi o cosa rappresenta esattamente il demonio del titolo? Per riprendere le parole di Ermanno Olmi, presenti nel film stesso: “gli olivi, il sole, le cicale significavano sonno, abbandono, rassegnazione, miseria; e ora qui invece gli uomini hanno costruito una cattedrale immensa di metallo e di vetro per scatenarvi dentro il mostro infuocato che si chiama acciaio e che significa vita”. Dunque il nuovo metallo che avrebbe cambiato l’Italia: l’acciaio stesso. E naturalmente quell’insieme di macchinari mostruosi che è l’edificio industriale che serve a produrlo, la cui immagine – imponente, avvolta dal fumo, infernale – è stata più volte riproposta da film come Tempi Moderni di Charlie Chaplin o Metropolis di Fritz Lang. Ma non è questo che Ferrario vuole rappresentare. Egli afferma infatti che ”è facile oggi inorridire davanti alle immagini che mostrano le ruspe fare piazza pulita degli ulivi centenari per costruire il tubificio di Taranto che oggi porta il brand dell’ILVA: eppure per lungo tempo l’idea che la tecnica, il progresso, l’industrializzazione avrebbero reso il mondo migliore ha accompagnato soprattutto la mia generazione, quella nata durante il miracolo economico italiano”. Piuttosto, inteso in senso più metaforico, il vero mostro è il documentario stesso; questo perché – come aggiunge il regista – “il film è come Frankenstein: un corpo che è stato costruito assemblando pezzi di altri corpi morti, film dimenticati che invece insieme giungono a nuova vita, risorgono prendendo un altro senso, un nuovo significato”. Tale associazione fa sì che il film abbia un duplice effetto. In primo luogo quello del terrore, ovvero la forza demoniaca dell’entusiasmo e del progresso, perché “ci sono sequenze che lette con la coscienza ambientalista di questi anni fanno veramente spavento”; in secondo luogo quello della tenerezza, il senso di innocenza del mostro, non colpevole perché è l’uomo che l’ha creato.

Quella di Ferrario è una riflessione sul tempo e sulla società fatta da un uomo che è cresciuto gli anni del Miracolo economico, ma che parte da un intento innanzitutto culturale ed intellettuale per poi riscoprirsi intensamente comunicativa e portatrice di un sentimento. Così, ragionando sul senso del cinema industriale, Ferrario legge quel passato in chiave niente affatto nostalgica, consapevole com’è del fallimento di quell’utopia al giorno d’oggi; ha però la convinzione che sia stato un periodo dotato di “una energia, talvolta irresponsabile ma meravigliosamente spericolata verso il futuro, che è proprio ciò di cui sentiamo la mancanza oggi”. Tutto questo senza la pretesa di voler svolgere un discorso storico, politico o sociologico. Il film è infatti scevro da qualsiasi inclinazione ambientalista o antiambientalista, politicizzata o meno, bensì aperto alla libera riflessione dello spettatore.

Il tema – dunque – è quello di un “futuro migliore”, un’utopia lontana dal nostro corrente immaginario, ma che già all’epoca di Filippo Tommaso Marinetti era sentita molto positivamente, quando scriveva: “tutte le cose che oggi ci appaiono orrende, allora ci sembravano bellissime. Chi non ha visto quegli anni non può capire la fuga a occhi chiusi verso il benessere e le radici della crisi economica e morale di oggi. Godevamo – con pochissima ironia e molto compiacimento – delle luci che si accendevano e spegnevano. Ci lasciammo trascinare dalle speranze? Probabilmente sì. Probabilmente la nostra infatuazione fu ingenua; ma quel periodo fu veramente particolare, felice.”

Buona visione.